Quando decidi di cambiare regime alimentare, ci sono cose che ti vengono chieste: scusa, ma il burro della nonna? Ma come, ma la fiorentina? Uè, ma la pizza? Ecco: la pizza. Non importa quanti parenti tu stia scandalizzando, quanti pranzi di Natale tu abbia sabotato proponendo alternative “veg” e devianti dalla tradizione per capricci cibo-centrici. Quelli si possono anche perdonare. La pizza rossa, però, no: è chiaro segno che c’è qualcosa che non va.
Forse l’avete capito: non sto parlando di perverse passioni per la Marinara, ma di chi, pure dalla posizione di una dieta vegana, ama la pizza, e se ne vorrebbe ingozzare tutto il giorno. Sto parlando di cibo plant-based, della vulgata che vuole i suoi adepti come martiri allucinati, sempre sul filo del masochismo. Soprattutto, però, in questo numero parliamo di punti di vista. Del loro scardinamento, e delle meravigliose rivoluzioni che può provocare. Come spesso accade, comincia tutto dalle parole. Nel nostro caso, “pit’sa”. Che si legge, avrete ormai intuito, “pizza”.
Ma Pit’sa non è solo un gioco di parole. È una giovane pizzeria di Bergamo, aperta a fine 2022 da Giovanni Nicolussi insieme alla compagna Valentina Giacomin. Un progetto che parte dall’inclusione e dalla voglia di novità gustose e “buone”, in ogni sfaccettatura del termine. Vicentino classe ‘85, Giovanni è arrivato all’idea della pizza (e di Pit’sa) dopo una carriera calcistica nelle divisioni minori e un ruolo da Responsabile Commerciale per un’azienda tessile italiana, che ancora ricopre.
La visione mia e di mia moglie per Pit’sa è stata subito molto chiara: non volevamo che fosse la nostra attività principale, e speriamo di poter mantenere le cose così il più a lungo possibile. Vogliamo dividere i profitti che servono alla vita di tutti i giorni insieme alla nostra bambina da quelli derivati dal progetto. Secondo noi, questo attiva un circolo virtuoso, permettendoci di reinvestire il 100% dei profitti di Pit’sa nel locale e nella crescita della nostra visione. Valentina, per esempio, lavora come tatuatrice.
Quando visito Pit’sa, arrivo molto presto. Di solito questo mi mette a disagio: ho sempre paura di essere di troppo nel tempo delle persone. Chi mi conosce, infatti, sa che sono una ritardataria cronica. Eppure, nonostante i macchinosi e anticipati incastri di treni Milano-Bergamo, Giovanni mi accoglie a braccia aperte. Intuisco al volo che condividiamo un tratto sociale fondamentale: la curiosità verso le storie degli altri; il piacere di ascoltarle, e di condividere la propria, davanti a un buon bicchiere di vino o una birretta fresca, appena spillata. Tra l’altro, Giovanni è anche sommelier. Gli confesso che è da tempo che rimugino su un corso da regalarmi nel campo. Mi risponde che sono pazza a non averlo ancora fatto, e che devo iscrivermi appena esco da lì. Io penso che la ragione ce l’abbia tutta lui.
Ma perché la pizza, allora, invece che, per dire, un’enoteca? E come mai la scelta di utilizzare solo ingredienti di origine vegetale in tutto il menù (tranne una pizza, preparata con formaggio di malga), che, sia detto, non comprende solo pizze, ma anche una selezione di fritti, antipasti, e dolci da capogiro?
L’idea di Pit’sa è partita da lontano. Qualche anno fa, purtroppo, abbiamo dovuto affrontare la malattia di mia madre. Lei amava tantissimo la pizza, ma le sue condizioni di salute non le permettevano più di mangiarla con gli stessi ingredienti di quella “classica”. Molte volte, però, questo vuol dire fare anche dei compromessi con il gusto. Lo spunto, allora, è stato quello di creare una pizza che anche mamma avrebbe potuto mangiare per piacere, non solo per nutrimento.
Per riuscirci, Giovanni e Valentina si sono appoggiati all’esperienza di una chef transitata, nel suo percorso, allo storico ristorante vegetariano Joia di Milano, fondato e guidato dallo chef Pietro Leemann, primo ristorante vegetariano europeo a ricevere una Stella Michelin nel 1996, e ancora oggi unico ristorante vegetariano stellato in Italia. Le sperimentazioni durano a lungo, e Giovanni mi promette: non riuscirei a immaginare il numero di pizze di cui si è nutrito e di cui si nutre. Oggi, Pit’sa usa solo farina Antiqua Bongiovanni Tipo 1 (del molino torinese Bongiovanni) macinata a pietra, a moderato contenuto proteico, perfetta per cornicioni da urlo… anzi, ops, da morso. Amanti della pizza sottile e romana, questo è per voi: andate da Pit’sa e lasciatevi convincere che il connubio perfetto tra base croccante e bordo morbido, da leccarsi i baffi, può esistere. Questa è una delle “battaglie” a cui Giovanni tiene di più. E le sue pizze sono accompagnate da una firma particolare: una ciotolina di sugo di pomodoro che invita alla scarpetta, rivolta soprattutto a chi, di solito, lascia le “croste”.
Questa cosa è nata del tutto a caso, ma ne siamo felici. Una sera, durante il periodo di sperimentazione degli impasti, erano rimasti dei bordi sconditi e del sugo di pomodoro. Mi sono messo a fare la scarpetta. Io adoro il bordo della pizza. E abbiamo deciso che avremmo provato a spargere questa passione.
D’altronde, è risaputo: molte tra le ricette della grande cucina tradizionale sono nate per caso. Besciamella, crêpe suzette, Kaiserschmarren: tutto frutto di incredibile serendipità. Ora, anche la scarpetta di Pit’sa. Che si accompagna a condimenti misurati sul bilancino: dosi perfette, perfettamente replicabili. Con Giovanni, che mi fa compagnia per la cena, ci smezziamo due poderosi cavalli di battaglia: la Friarielli d’Italia (base di friarielli piccanti saltati all’aglio, gocce di hummus di ceci alla paprika, fermentino fresco di anacardi, cialde di pomodori, olio a crudo) e la Regina di Cuori (sugo di pomodoro, fermentino fresco di anacardi, pomodorino confit, pesto al basilico, olio a crudo, basilico fresco), entrambe di una bontà imbarazzante. Ma prima, come farsi mancare la Cariöla Bergamasca, golosissimo misto fritti (sempre plant-based) servito in una letterale carriola; e poi, per chiudere in bellezza, il Provamisù della casa: sorry mamma, ma che non fosse mascarpone non si sentiva proprio.
Insomma, a me, dopo la visita e le chiacchiere con Giovanni, rimane solo un cruccio: ma sempre fino a Bergamo devo venire? Lui fa l’evasivo e dice che, forse, no. Ma che, come ogni persona pratica, vuole aspettare di aver qualcosa in mano per darmi anticipazioni. Io, naturalmente, spero che quel momento arrivi prestissimo. Prima di salutarci, rimane solo una cosa da fare: la foto di rito con Paolo, cameriere e vera rockstar del locale, tifoso senza riserve della Pedrengo Basket (e infatti che bello, che Pit’sa sia vicina al palazzetto di Bergamo). Paolo è affetto da sindrome di Down, come la maggior parte dello staff di Pit’sa. Un’altra, silenziosa rivoluzione che Giovanni fa avvenire con il suo progetto. E io non vedo l’ora di tornare a trovarli.