Ciao *golosini*, l’estate com’era? Per me sempre troppo lunga, ma una pausa (anche per noi) ci voleva. Vediamo che cosa ci riserva l’autunno. Intanto cominciamo con una cosa che fuori, al fresco, agli aperitivi sta sempre bene: una birretta congelata ❄️🍺
La prima volta che ho tirato un sorso di Jungle Juice? Boh, e chi se lo ricorda. Vorrei essere più romantica di così, ma potrei produrre inesattezze.
Probabilmente è stato dalle parti della movida di Via Melzo, a Milano, in uno di quei posti che tiene due birre medio-cattive alla spina e una soluzione di absolute bangers nel frigo delle lattine, proprio di fianco al bancone, ben illuminato. Deve avermi fatto sorridere il logo a doppia J, la banana ad accompagnare nella grafica di questo birrificio artigianale Made in Roma. Mi avranno parlato le grafiche un po’ generazionali che presentavano i nomi delle birre, cioè, ci sono cose fatte per vendere ai Boomer tipo il Folletto, elegante e raffinato, verde rassicurante. Poi ci sono quelle per quelli più giovani, divertenti e incasinate. Chi lo sa. Alla fine, quello che rimane è la beva. Fatti i conti, quello che so è che, dovunque sia stata la prima volta, Jungle Juice è diventata un’ossessione dolce e benvenuta. Che mi porta a controllare ogni qualche mese il loro sito per rifornire la casa, certo, ma anche per stare al passo con le ultime mosse di questi romani folli, che hanno scommesso sulla cosa più difficile: fare quello che piace, farlo bene, e spaccare di brutto.
Potete dunque immaginare l’emozione quando mi sono seduta in chiamata con due dei loro, Giulia ed Emanuele, per parlare di questo folle volo che è stato, dal 2016 a qui, Jungle Juice. Infatti, ragazzi, perdonatemi: lo so che a tratti sembravo una ragazzina da concerto di Harry Styles, perdendomi negli elogi della felicità pura che mettete in lattina. Che vi devo dire: ognuno ha un lato sentimentale. Il mio si attiva quando bevo. Meno male che romanticismo e sentimento sono due nozioni ben chiare, in primis, a chi Jungle Juice ha tirato su dal nulla.
Siamo nati con un moto assolutamente spontaneo, e diciamo sempre che è ancora il nostro tesoro più grande, la spontaneità con cui abbiamo fatto e continuiamo a fare tutto. È quasi scontato dire che tutto è cominciato dall’amore per la birra. Si beve insieme, si studia, vengono delle idee… Alla fine siamo diventati un gruppo di quattro soci fondatori, ma nessuno si sarebbe mai aspettato di mettersi a fare davvero la birra. Io, per esempio, avevo appena aperto un’agenzia di comunicazione quando è arrivata la proposta concreta. Di questo dobbiamo ringraziare il nostro socio diciamo trainante, che ha dato il via a tutto, si chiama Umberto ed era l’unico che stava già lavorando nel campo con una beer firm, cioè produceva birra ma appoggiandosi agli stabilimenti produttivi di altri. Bello anche così, però ci sta che ti venga a noia, dopo un po’. Qui comunque c’era già tutto il nucleo di Jungle Juice. Così c’è stato lo scatto diciamo.
Arriva, così, la partenza. Subito con dimensioni modeste, 3 fermentatori soli per intenderci. Ma in sette anni ne succedono di cose. La più recente è stata una ristrutturazione radicale dell’assetto dello stabilimento di Roma in cui Jungle Juice produce tutte le birre, per far posto a 8 nuovi fermentatori e tenere dietro, così, a una richiesta sempre maggiore. Dice Giulia: «Pensa che oggi abbiamo quattro fermentatori dedicati interamente alla produzione della Baba Yaga [America IPA, ndr], che è la birra che vendiamo di più».
Ah, interessante. Se mi avessero chiesto di puntare il dito sul prodotto più venduto di JJ, non avrei mai detto la Baba Yaga. Non perché non tenga testa alle altre, figurarsi. Anche qui la ragione è idiosincratica, e riguarda uno dei motivi per cui controllo ossessivamente il loro shop online. Vedete, c’è una birra in particolare che non riesco a farmi passare dalla testa. È una Gose minerale, piacevole tutto l’anno, e ha una faina che sparaflasha arcobaleni dagli occhi sulla copertina. What’s not to love about that? Si chiama, appunto, Salty La Faina, ed è spesso e volentieri esaurita. Pensavo perché fosse la più richiesta, e non me ne sarei stupita. Invece no, sono beghe produttive e questioni di pubblico. Cazzarola.
Ma ti capisco eh, dice Giulia. «Prima di lavorare per i ragazzi già conoscevo Jungle Juice, e prima di andare in ferie, il 14 agosto ero fissa da loro a prendermi una cassa di Salty e una di Renato [Sour Fruit Ale, ndr], e via in vacanza».
La storia di Giulia, da un anno circa insieme al team JJ, è utile per inquadrare meglio quel romanticismo tutto romano che ha portato alla nascita, e alla crescita, del birrificio.
«Io praticamente lavoravo nel bar sotto casa di Umberto ed Emanuele. Stavo studiando e usavo il lavoretto per mettermi via qualcosa. Però non che fosse quello che volevo fare nella vita, infatti finiti gli studi ero pronta a licenziarmi e a cercare altro. Con gli altri due parlavamo sempre di birre, ero, come ho detto, cliente fissa. Quando hanno saputo che avrei lasciato il bar mi hanno intercettato con una scrivania vuota in sede da loro. Non ci ho messo un secondo a dire di sì».
E com’è, dopo un anno?
«Guarda, io non potrei essere più contenta. Non siamo una famiglia perché ormai siamo troppi, i ragazzi sono riusciti ad assumere più di dieci dipendenti, e questo fa anche capire quanto stia crescendo il birrificio pur conservando la sua dimensione artigianale. Però, per dire, quando alle 17 qualcuno comincia a staccare vengono a salutarci negli uffici, facciamo un po’ di baldoria. Poi tante volte si esce insieme, si creano relazioni. C’è poco da dire alla fine, se fare birra ti piace e poi lo puoi usare anche per pagare le bollette, questo aiuta di sicuro a finire la giornata soddisfatto».
Di che cosa parla, dunque, il futuro di Jungle Juice? I ragazzi non hanno dubbi: la via per continuare ad avere passione e romanticismo è fatta di studio, curiosità, e voglia di sperimentare.
«C’è questa parte bellissima del nostro lavoro che è dover andare in viaggio per imparare che cosa fanno gli altri, come lavorano all’estero, quali sono gli stili che si stanno sviluppando di più, e così via. È particolarmente importante per un birrificio artigianale come il nostro. Anche solo il movimento craft beer è di importazione americana, e per tanto tempo tutti gli artigianali italiani, ma anche noi, ci siamo ispirati agli stili di birra americani, luppolo forte, amaro, le IPA per sintetizzare. Poi pian piano abbiamo cominciato a cercare una strada nostra, abbiamo approfondito il mondo delle tradizionali tedesche e franconi, per esempi, unendo alla nostra produzione degli stili più morbidi. Ora l’equilibrio perfetto per noi è avere una decina di prodotti core diciamo, sempre disponibili, che sono quelli di beva più facile e si possono piazzare con tutti. E parallelamente sviluppare gli stili più particolari, fatti come piacciono a noi, creando anche una birra che fai una volta sola ma che mandi esaurita con i più nerd e che ti dà soddisfazione. Questo equilibrio è importantissimo per noi di Jungle Juice, perché appunto tutto è cominciato dal piacere di godersi una buona birra. Dunque la cosa più importante è la beva, quella non si batte mai. Puoi fare anche la birra più stramba e più figa del mondo, ma se poi vien fuori un sorso cervellotico, ecco, non è quello che vogliamo fare noi».
In tutto questo gioca un ruolo importante, naturalmente, la capacità del mercato di comprendere il prodotto artigianale che si sta offrendo. Il 2022 è stato l’anno in cui gli italiani hanno consumato più birra (negli ultimi dieci anni), con una media di 37,8 litri pro capite. Un numero che non stupisce dato il decennio di “riscoperta” della birra da parte de noantri, non solo industriale (ormai quasi tutti i grandi marchi industriali italiani sono proprietà di gruppi esteri) ma anche artigianale. Vero è che il mercato si è saturato in poco tempo: al 2022 sono 870 i microbirrifici su territorio italiano (112 dei quali nella sola Lombardia), per 3.000 persone impiegate e 471.000 ettolitri prodotti (3,1% del totale nazionale). Il tutto mentre nel Regno Unito (cartina tornasole di una certa importanza nel campo della birra) due industriali italiane si sono classificate al terzo e quarto posto nella classifica delle Lager più vendute nel paese nel 2022 (parliamo di Moretti e Nastro Azzurro). A questo punto, chiedo ai ragazzi, ha senso parlare di “birra italiana”?
«Non c’è una risposta definitiva alla domanda. In realtà la cosa più giusta da dire sarebbe “no”, anche se stanno emergendo, specie per l’estero, degli stili che riportano la parola Italian nel nome. Parlare di birra fatta in Italia, certo. Ma di birra “italiana”, considerato che i nostri luppoli non sono proprio famosi per le proprietà organolettiche che esprimono, e che quelli americani vincono ancora su tutti, direi proprio di no».
Ma, visti i risultati dei compari industriali in UK, Jungle Juice ci pensa, all’export?
«È impossibile dire di no. È una possibilità che accarezziamo da tempo, ma anche una strada abbastanza complicata e che comporterebbe scalare di nuovo la produzione. Forse non siamo ancora pronti. Ma un giorno certo, speriamo di sì».
Ci sentiamo presto.
Fino a quel momento, stay hungry, stay *golosini*.
Cia’.
*Se vuoi essere anche tu, per qualche ragione, un *golosino*, o hai altri *golosini* da consigliare per super chiacchiere, rispondi alla mail, scrivimi su Instagram, e dimmi tutto.